Riprendendo quanto già espresso due settimane fa (v. il Notiziario di ScudoMedico #14, anche dal sito www.scudomedico.it nella sezione “Archivio Newsletter”) continuiamo nella nostra analisi relativa al profilo giuridico del medico di medicina generale.
Rapporto tra autonomia collettiva (acn) e legge (intervento eteronomo)
La specificità della normativa della Medicina Generale sta certamente nella forte tenuta della fonte regolativa autonoma rispetto al settore del pubblico impiego, dove, specie a seguito della Riforma del 2009-2010, le relazioni sindacali sono state piuttosto de-potenziate.
Il tema della gerarchia delle fonti, specie nell’ambito del diritto del lavoro – e tanto più nell’ambito del sistema del servizio sanitario convenzionato che costituisce una fascia assolutamente speciale del diritto del lavoro – è un tema tutt’altro che rassicurante: negli ultimi anni in particolare, più che in passato, si tratta di navigare… non in mare aperto, ma di certo in un arcipelago con ponti tutti da consolidare.
Il tema del rapporto tra le fonti si intreccia con il tema classico giuslavorista della norma inderogabile, cioè del problema di quale sia la norma derogabile da parte degli atti dell’autonomia (individuale o) collettiva. Esso è connesso anche ai processi di internazionalizzazione-globalizzazione dello scenario di riferimento, a cui il settore della sanità convenzionata è solo apparentemente poco permeabile, poichè si tratta di un processo che concerne la rivisitazione di molte delle nostre categorie culturali di base e specialmente quelle concernenti il c.s. Stato Sociale: nel settore che interessa pone la domanda sostanziale se il sindacato debba svolgere un ruolo di mera rappresentanza della categoria, ovvero un ruolo anche politico-istituzionale come sin qui ha fatto.
Ora, in punto di gerarchia tra norme va premesso che questa può esistere nei termini che seguono:
- a favore delle norme di rango costituzionale/europeo (per cui né leggi né contratti possono violare norme costituzionali o internazionali);
- a favore delle norme che legittimano regole di tenore “esecutivo” (es. il regolamento ministeriale o l’atto amministrativo in generale “esegue” tipicamente il dettato legislativo, e pertanto non può dettare norme con quest’ultimo in contrasto).
Il D.lgs n. 502/1992
Per verificare il rapporto tra legge e ACN, ed eventualmente anche tra l’ACN e il potere unilaterale delle pubbliche amministrazioni nei limiti in cui la “spinta unilateralista” della Riforma Brunetta abbia rilievo pratico per il rapporto del MMG, possiamo prendere a riferimento legale il D.lgs n. 502/1992, la più recente normativa statale posta a fondamento del carattere necessario della contrattazione per la regolazione dei rapporti in questione, collante tra disciplina della categoria e sistema sanitario.
Ora, il contratto collettivo ad efficacia erga-omnes e la legge o gli atti aventi forza di legge, definibili entrambe come norme primarie, non si pone un rapporto di gerarchia formale: il contratto collettivo ha la stessa valenza della legge e può dunque derogarla, a meno che non si ritenga che la legge in questione, nella sua concezione di fonte materiale e sostanziale, non sia disposta a tutela di un interesse costituzionale ovvero di una norma europea, oppure nel caso che sia la legge a disporre d’imperio una riserva a proprio favore, sempre nell’ottica di preservare diritti e principi costituzionalmente tutelati.
L’art. 8 del D.lgs n. 502 del 1992, come già rilevato, si esprime come norma costituente del potere autonomo che si esercita con la sottoscrizione degli ACN ma anche orientatrice.
Per altro verso, l’art. 1372 c.c. asserisce che il contratto “ha forza di legge” tra le parti, e la normativa speciale del settore convenzionato conferisce all’ACN efficacia pari alla legge anche in termini di applicazione soggettiva (cioè: l’ACN è valido come la legge non solo tra le parti, ma erga-omnes). Dunque, un caso di antinomia tra una statuizione dell’autonomia collettiva e la legge (quello per cui sarebbe dirimente il giudizio della Corte di Cassazione, per intenderci), si profila essenzialmente come una questione per il riparto delle competenze.
Non dimentichiamo, del resto, che nel pubblico impiego vige tutt’ora il primato del contratto collettivo ex art. 2 D.lgs 165/2001 in punto di trattamento economico (anche se la lettera del nuovo D.lgs n. 165/2001 come modificato dalla riforma del 2009 fa desumere un’inversione del rapporto tra legge e contratto collettivo a pro della prima, e il blocco dei contratti ne costituisce espressione).
Mentre in passato, nell’era espansiva del diritto del lavoro, è stato facile attribuire ad ogni legge in materia di lavoro la qualità di legge inderogabile e preposta alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ex art. 35 Cost., oggi viceversa, tutta una serie di indici normativi e una dottrina in via di consolidamento stanno imponendo una lettura dell’art. 35 Cost. moderata (ovvero tesa alla derogabilità) e coordinata non solo con l’art. 41 Cost. in punto di libertà di iniziativa economica, ma anche con l’art. 2 in punto di solidarietà generale (intesa come compartecipazione dei lavoratori alla vita socio/economica), e si può aggiungere con l’art. 81 Cost. come modificato dalla Legge costituzionale n. 1/2012 sul pareggio di bilancio, norma quest’ultima destinata a pesare soprattutto in punto di lavoro pubblico.
Questa considerazione apre ad un più ampio margine di intervento per l’autonomia collettiva in generale. E del resto basta pensare a un intervento “incisivo” come è stato l’art. 8 del D.lgs n. 138 del 2011, convertito nella Legge n. 148 del 2011, che ha dato la possibilità ai contratti decentrati di derogare liberamente alla legge – comprese materie ritenute tradizionalmente legali-inderogabili come le mansioni – sebbene in parte “zittito” dalla stessa autonomia collettiva a livello interconfederale, per comprendere che il trend “pro diversificazione di trattamento” a scapito del trend uniformizzante proprio della legge statale, è ben in atto.
L’articolo 8… riformulato
Detto questo in punto di rapporto tra l’ACN e la legge in generale, è il caso di soffermarsi sulla nuova formulazione dell’art. 8 del D.lgs n. 502, per il settore sanitario convenzionato, la quale ha espressamente previsto che “le attività e le funzioni disciplinate dall’accordo collettivo nazionale siano individuate tra quelle previste nei livelli essenziali di assistenza (…) fatto salvo quanto previsto dalle singole regioni con riguardo ai livelli di assistenza ed alla relativa copertura economica a carico del bilancio regionale”.
La disposizione in questione è esplicita nel senso di delineare il carattere di fonte dell’ACN: il lavoro svolto dal personale convenzionato e disciplinato nell’ACN è individuato/qualificato come un livello essenziale di assistenza, fermo restando il coordinamento con la fonte regionale, anch’essa deputata a individuare i livelli di assistenza. A prescindere dalla considerazione della commistione del piano regolativo con il piano della tutela sostanziale, oltre che dal fatto che i L.E.A. esprimono una tutela per l’utenza, non per i lavoratori, si tratta di una disposizione la cui ratio merita un approfondimento, anche perchè collocata a priori rispetto al resto del testo: qual è stato, occorre cioè chiedersi, l’intento del legislatore, nell’emendare così la normativa per le professioni convenzionate?
Due sono le corde toccate dalla riforma Balduzzi in questo punto “0a” del comma 1 dell’art. 8: da un lato il nesso tra disciplina delle professioni convenzionate e i L.E.A., dall’altro lato il rapporto tra ACN e AIR.
La prima riflessione, considerato anche il dubbio sulla qualificazione degli ACN in termini di LEA come emerso dallo studio svolto in SISAC (studio risalente a un tempo precedente la riforma) è quella per cui il legislatore possa aver voluto fare chiarezza in quella situazione normativa appunto dubbiosa, conferendo la natura “essenziale” al contenuto di tale fonte negoziale-istituzionalizzata, dove per “essenziale” si può leggere una forma di inderogabilità, con l’obiettivo esplicito di rinforzarne il valore a fronte di interventi legislativi o anche amministrativi tesi a depotenziarla. Ovvero di avvalorarne la posizione (di intangibilità) rispetto agli AIR, benchè un tale risultato sia raggiunto attraverso una categoria concettuale “impropria” sotto il profilo giuslavoristico (LEA attiene alla prestazione dovuta all’utenza, non alla PA).
Il riferimento alla competenza regionale, di cui alla preposizione “fatto salvo quanto previsto dalle regioni” ribadisce in termini formali il potere regionale sovrano nell’individuazione delle attività e delle funzioni sanitarie, potere che però, nell’estrinsecarsi, non potrà che tener conto (trovare un riferimento/limite) nel coordinamento nazionale e uniformizzante di cui i LEA sono espressione in termini contenutistici e appunto essenziali.
A questo punto, dunque, nel settore convenzionato (volendosi qui rimanere nell’ambito di un’attività non arbitraria e potendosi del resto escludere ipotesi di eccesso di potere – posto che gli accordi costituiscono un’ espressione mediata di diversi interessi contrapposti, alieno al pieno libero arbitrio – e del resto le norme generali sull’invalidità dei contratti possono costituire una barriera di sistema anche in questo ambito) appare inverosimile prospettare una condizione di illegittimità dell’ACN rispetto alla legge, dal momento che è la legge stessa a legittimare l’ACN quale fonte primaria del rapporto di lavoro che interessa. Questo si può concludere anche alla luce della giurisprudenza che si è occupata della natura dell’ACN – essenzialmente nella prospettiva di applicarvi criteri interpretativi di natura pubblicistica o privatistica nel concedere/non concedere l’applicazione di specifici trattamenti.
I vuoti lasciati dall’ACN e il potere della PA
Più concreta potrebbe essere una questione di “tenuta” dell’ACN di fronte all’esercizio di potere unilaterale da parte dell’amministrazione pubblica: la riforma del Pubblico Impiego è incisiva nel senso di de-potenziare il contratto collettivo in generale, fatta eccezione per poche materie per cui il confronto sindacale continua ad avere una corsia esclusiva (ma su questo fronte il parallelo P.I. – servizio convenzionato non è percorribile in via immediata) e potrebbe generare applicazioni unilaterali della legge da parte del datore di lavoro pubblico tesi a “superare” il contratto collettivo.
Dal punto di vista teorico-legale è semplice affermare la prevalenza dell’Accordo: il potere unilaterale del datore di lavoro non può superare la pattuizione negoziale con veste di Intesa della Conferenza Stato – Regioni per il motivo che il primo costituisce una fonte secondaria-applicativa rispetto ad una fonte primaria qual è l’ACN “ratificato”.
Ma rimangono da considerare i c.d. spazi vuoti, gli spazi cioè lasciati vuoti dall’ACN, da questo non regolati nè previsti. Qui emerge la tematica della natura parasubordinata della categoria, come tale atta a vedersi dettare linee direttive che sono l’espressione del “coordinamento” con la parte datoriale, tipico della parasubordinazione.
La questione assume la veste della domanda seguente: fino a che punto il datore di lavoro pubblico può esercitare il suo potere a limitazione dell’autonomia del MMG, oltre quanto accordato nell’ACN)? E’ prospettabile l’esercizio di un potere sanzionatorio diretto?
A posteriori si può cercare qualche indice di risposta nella giurisprudenza: il principio della disciplina privatistica del rapporto, la natura di diritto soggettivo delle posizioni coinvolte, anche in punto di accesso al rapporto, il principio del potere di sorveglianza della PA.
In conclusione si può affermare: “nel rispetto dei principi fondamentali della legislazione statale” il contenuto degli accordi collettivi nazionali rappresenta principio generale di regolazione del rapporto convenzionale dei MMG ai vari livelli di applicazione
Giandomenico Savorani
Vice Presidente ScudoMedico